Ci riferiamo al fenomeno che in Giappone viene chiamato “Hikikomori “che significa “Stare in Disparte”.
Persone generalmente tra i 19 e i 29 anni che gradualmente abbandonano le attività di studio e di lavoro per passare sempre più tempo nella propria stanza.
La maggior parte di queste persone vive in famiglia, dove anche i rapporti con i genitori sono interrotti, o limitati alla gestione del cibo e di altri mezzi di sostentamento, senza mai valicare la porta della loro stanza il cui accesso è proibito a chiunque. Per essere considerato tale, il ritiro deve essere superiore a 6 mesi e deve essere completo, non preservare alcun tipo di rapporto, deve esserci rifiuto dell’attività lavorativa e scolastica e non deve verificarsi in presenza di altre malattie psichiatriche gravi. Inoltre questa condizione è spesso vissuta con vergogna dalle famiglie che per questo evitano di chiedere aiuto.
La cultura del ritiro è sempre stata presente nella storia, basti pensare al monachesimo di clausura. Il sacrificio della vita relazionale veniva giustificato dall’ottenimento di un rapporto più intenso e completo con la divinità. Tuttavia, non veniva a mancare un senso di “appartenenza sociale”: ci si riconosceva in una regola monastica comune e si accettava in modo condiviso l’autorità di un “superiore”.
Il fenomeno a cui ci riferiamo è diverso: una sensazione di estraniamento per persone che che non riescono più a riconoscersi né si sentono riconosciute dall’ambiente sociale. Il ritiro sociale come una fuga dalle esigenze di una società a cui non ci si sa adattare.
Il fenomeno del ritiro sociale può rappresentare una forma di fuga di fronte a una pressione eccessiva, vissuta come insostenibile come il timore di un fallimento o la gestione di un fallimento già avvenuto, come per esempio essere bocciato ad un esame. Può essere anche letto come una forma implicita di ribellione: il rifiuto di farsi catalogare, rendendo impossibile al sistema sociale dare una collocazione e quindi attribuire a un individuo un valore definito.
Il mondo esterno è vissuto come un nemico. La domanda più frequente che ci giunge dalle famiglie che incontriamo è di creare contesti per la socialità e di aiutare i loro figli ad uscire di casa. La nostra risposta a questa domanda è che uscire significa innanzitutto uscire dall’isolamento relazionale, per questo è fondamentale costruire con la famiglia una solida alleanza che permetta l’ingresso a casa di un terapeuta specializzato in interventi a domicilio che gradualmente aiuti la persona ritirata a sperimentare una relazione non giudicante, di cui potersi fidare e con cui poter condividere del tempo nella propria stanza. Questa fase dell’intervento ha l’obbiettivo di aiutare la persona ritirata a cambiare il modo in cui da significato al mondo esterno: da nemico ad amico. Il terapeuta domiciliare accompagnerà progressivamente la persona a riavvicinarsi e riesplorare il proprio territorio.
L’obbiettivo è imparare a non aver paura dell’altro, che si può conoscere giocando, andando al cinema, a comprarsi un gelato, al pub, insomma vivendo insieme delle esperienze.
Inoltre un lavoro psicologico con le famiglie teso a dare senso ai comportamenti dei figli è un punto fondamentale del lavoro, nella nostra esperienza lo sviluppo del rapporto tra genitori e figli è un fattore critico nell’uscita dal ritiro sociale dei figli.